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laretino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
D'ANGELICA DI M. PIETRO ARETINO DUE PRIMI CANTI
A LA MARCHESA DEL VASTO
Per essere, Altissima Signora, l'audazia non pur il seggio et il diadema de tutte le dignità de l'animo, ma una virtú piú d'ogni altra riguardata da la Fortuna, con l'ardire de la sua fronte vi mando le rime presenti, tenendo fatal ventura se aviene che ciò me si dedichi per temerità, però che da sí fatta prosunzione nascono due illustrissimi effetti: l'uno intitola i versi al sopraumano consorte vostro; l'altro gli porge a voi, che sua divina mogliere sete. Per la qual cosa egli, che vi adora, vedendoci MARIA gli prenderà con la destra de l'affezzione, e voi, che l'adorate, leggendoci ALFONSO gli riceverete con quella del core; e cosí lo stil mio, come uscisse da vena celeste, de indegno e basso diventerà gradito e supremo. Et è dono de le stelle che permettano che siate tale per dar qualità ad altri, et erra chi non se inchina ad accendervi lumi et a chiedervi grazie, perché non solamente risplendete come rami de la sacra arbore di Aragona e de l'eterna pianta d'Avolos, che, inestati in uno istesso ceppo, senza temer che i nembi de la sorte col secco del suo verno disperda il verde del vostro aprile, producete frondi di lode, fiori di onore e frutti di gloria, ma vi dimostrate a noi quasi miracoli, che empiete il mondo d'altro stupore che non fece Vener di Gnido et il Colosso di Rodi. Et è ben dritto, da che ne le due statue si vide la fatica de l'arte, il pellegrino de l'ingegno et il pregio del marmo, e ne la coppia ch'io dico appare il piacer de Iddio, la sodisfazione de la Natura et il diletto de i Pianeti; sí che ceda la gran figura del Sole et il bello intaglio di Citerea al merito del rettor de l'armi cesaree et a l'assempio de la forma de gli angeli; ceda a la età nostra il secolo sollevato da la superbia mercé di cotali imagini; o, volendo vantarsi e meravigliarsi, impari a conoscere ciò ch'è vanto e maraviglia ne l'opere sue e ne l'eccellenze vostre. Quali termini de l'universo non tocca il dito del valore de sí magno cavaliero? L'aere di qual clima non trattano le penne de la fama di cotanto principe? Quai raggi non gli circondano il perpetuo del nome? Ecco la Invidia che, non torcendo punto il guardo, perduta ogni sua menda ne la maestà de la vostra sembianza, astratta ne i reverendi movimenti de gli occhi vostri, stassi godendo de l'odore che vi spira da le chiome e, confusa ne l'oro per cui rifulgano, confessa che s'ingiuria la potenza del Cielo, da cui traete l'origine, a dirvisi donna e non dea.
AL GRAN MARCHESE DEL VASTO
PRIMO CANTO
1
Io vorrei dir la donna ch'ebbe il vanto di leggiadra et angelica bellezza, la qual l'amato ben sospirò tanto che depose la gioia e l'alterezza, et imparato a pianger con quel pianto che ad altri insegnò già la sua durezza: Medor pur chiama in suon languido e fioco, che non l'ascolta e 'l suo mal prende a gioco.
2
Ma non lice ch'io scriva o ch'io favelle se pria non porgo i caldi prieghi miei al chiaro Alfonso, per sue opre belle già nel numero eletto de gli dei, che, asceso nel collegio de le stelle, quel valor, di che lampa et idol sei, sí come al mondo face alzar le ciglia, cosí il cielo empierà di maraviglia.
3
O de i gentili spirti unica spene e de le lor memorie alto sostegno, che senza il favor tuo non si conviene ne le carte spiegar penna d'ingegno, come a bearti il dí prescritto viene, in qual pianeta, in qual cielo, in qual segno apparirai nel tuo lucente seggio, a cui l'alma inchinar col mondo deggio?
4
Ciascuna stella vorrà loco farti tosto ch'a gir lassuso il volo pigli: se in vece de la Libra vuoi locarti a sé ritirerà Scorpio gli artigli. Ma devi, giunto a quelle sante parti u' gli eterni udirai di Dio consigli, risplender dove i giusti prieghi e i voti possa meglio ascoltar de i tuoi devoti.
5
Benché translato in ciel, forse vorrai regger la terra o porre a l'acque il freno (de l'abisso non parlo, che non hai desio d'ivi regnar nel real seno). Ma ora aita - qual che tu sarai, che mortal uom non l'antivede a pieno - l'umile musa mia fatta superba per la divinità che il ciel ti serba.
6
Piovi, Signor, de la tua grazia rara sopra me sí ch'io scorga quelle vie dove debbo por giú con lode chiara il fascio alter de le fatiche mie. Or di ricever le mie note impara ne le tue caste e grate orecchie pie, acciò tu riconosca dal ciel poi le voci ch'io ti porgerò fra noi.
7
Già sento un nuovo ardor ne l'intelletto che 'l move a dir d'Angelica, che spinse sé ad amar con tanto audace affetto Medor, che sí di foco il cor le cinse ch'al giogo marital sotto umil tetto, qual piacque al ciel, seco s'offerse e strinse, né avendo di lui piú caro pegno li fe' don del diadema del suo regno.
8
La Fama, vaga de sí nuova cosa, tosto divolga in questa parte e in quella come s'è fatta d'un vil moro sposa Angelica e ciascun di ciò favella; né si creda però che stesse ascosa a i fidi servi suoi l'empia novella, anzi l'udir tanto de gli altri in prima quanto di lei fan piú de gli altri stima.
9
Ma il caso a passion varie movea qualunche l'ode e seco ne bisbiglia: chi per fama la donna conoscea ha del fin del suo amor gran meraviglia; chi la vide del ben ch'altri n'avea meraviglia et invidia insieme piglia; chi l'ama e intende di chi sposa ella era n'ha invidia, meraviglia e doglia fera.
10
Quella fu doglia, quella invidia fue, quella fu meraviglia che ne l'alma ebber color che le bellezze sue inchinar come cosa del cielo alma, né gli ritenne alcun dubbio infra due con sí e no, ma ne l'aperta palma par ch'avesser il ver - cosí si crede - dando a quel che n'udiro intera fede.
11
S'amanti provar mai tormenti fieri, con lagrime provargli e con sospiri d'Angelica gli accesi cavalieri, che meritar corona di martíri, quel dí che in mezzo de' lor cori alteri, già colmi di speranze e di desiri, sonò come il felice e bel Medoro sentiti i frutti avea del sudor loro.
12
Ma dentro a gli arsi e disdegnosi petti l'amorosa et acerba pena dura, benché egual fosse, fe' diversi effetti, forse perché diversa ebber natura. Orlando, primo infra gli amanti eletti, non come gli altri udí l'alta ventura del garzon fortunato: ei vide espresso quel che 'l fece uscir tosto di se stesso.
13
Ei vide l'antro ove a la donna piacque bear chi ell'ama; ei lesse l'epigramma in cui Medoro il suo gioir non tacque, il suo gioir che altri a dolersi infiamma; nel letto ei fu dove la coppia giacque; egli udí, sé struggendo a dramma a dramma, l'istoria dal pastor de la sua dea; vide il cierchio ch'al braccio essa tenea.
14
Onde sí fiero duolo e sí possente assalse il cor de l'infiammato conte, che, mancatoli il pianto e 'l suon dolente del sospirare e le querele pronte, mosse in tanto furor che follemente scoperse ignude le sue membra conte e se pietà celeste non avia cura di lui, restava in tal follia.
15
Ranaldo, mentre il comun grido ascolta, in preda al duol qual l'inesperto Orlando non diede sé, che esperienzia molta avea in amar, però fu saggio amando: ei pianse ben, no già con voce sciolta, ma con suono interrotto sospirando; premendo il duol che l'anima gli afflisse con la lingua si tacque e col cor disse.
16
Fatto a la fin con la sua doglia tregua, quasi uom ch'ha pur di sé qualche pietade, " Sarà mai " dice " che piú ami o segua donna che vive sol di crudeltade e da gli uomini illustri si dilegua perché goda de l'alta sua beltade un garzon peregrino, un senza nome, sol per aver begli occhi e belle chiome? ".
17
Cosí dicendo sente por la mano del giusto sdegno nel suo nobil core e per l'atto d'Angelica villano svegliarne a forza il desleale amore, né piú gli par che il dolce viso umano vinca il lume del sol col suo splendore, anzi non può soff[e]rir che alcuno dica ch'ella fosse giamai bella o pudica.
18
L'ultimo a udire il fatto è Sacripante, in cui fan nido i nobili costumi, che né Marte né Amor si scorge inante servo che il nome piú gli impenni e allumi. Il sacro re, il singulare amante sen gía solingo, ne i bei dolci lumi d'Angelica il pensier fisso tenendo, di gelosia come d'amor ardendo.
19
E mentre per drittissimo camino va de la donna sua cercando l'orme, un bel boschetto a sé scopre vicino, che d'un picciol teatro ha natie forme e s'alcun v'entra stanco e peregrino ivi s'arresta, ivi s'adagia e dorme, tosto ponendo ogni noia in oblio al suon d'un chiaro e fresco e dolce rio.
20
Par che il bel rio col mormorar suo lento chiami a posarsi ogniun ch'al bosco arriva e par che da le frondi, u' spira il vento, piovino i sonni in grembo a l'ombra estiva; arresta de gli augei l'almo concento qualunque vien per la fiorita riva; l'aria rider fa il luogo e il verde eletto par s'offerisca e per seggio e per letto.
21
Giunto il degno et errante cavaliero al bel boschetto verdeggiante e raro, per quetar l'amoroso alto pensiero a l'ombra fresca del bel sito caro del caval smonta. Intanto ecco un corriero che lo saluta con sembiante chiaro, e 'l gentil Sacripante lo dimanda chi egli è e dove va e chi lo manda.
22
- D'Angelica immortal messo son io - l'uom fedel tutto lieto li rispose -, che al mondo ho da far noto che d'un dio s'è fatta sposa, come il ciel dispose; e se l'effigie hai di veder desio di quel ch'ella ama sopra l'altre cose, io te la mostrerò, ma falle onore, che l'ha con le man sue dipinta Amore -.
23
Cosí dicendo il naturale e vivo essempio a sé trasse il corrier di seno, il quale, per mostrar l'idol suo divo, di leggiadria e d'alme grazie pieno, e per far anco di speranza privo color che tien con l'amoroso freno, fa publicare Angelica e sol brama che piú tosto lo veggia chi piú l'ama.
24
Quando gli occhi a l'imagine il re porse, sparse le guancie di color di morte; freddo sudor per le sue membra corse, fe' la bocca di fel, le labbra smorte, il lume perde e di se stesso in forse li mor la lingua e il cor li batte forte, l'alma sua langue in passione accerba, la lena manca, ond'ei cade in su l'erba.
25
Parve un uom che de subito s'accora, novella udendo che non pensa udire, che ad un tratto nel volto si scolora e poscia cade vinto dal martíre, stando senza potere un terzo d'ora pur respirar, non che parola dire; ma gli spirti a i suoi luoghi ritornando, fa segno d'esser vivo sospirando.
26
L'altissimo signor con un sospiro in sé riviene e fa di pianto un lago; poi con incomprensibile martíro prende tremando di Medor l'imago, dicendo: - Pur l'umíl sembianza miro di quel ch'è piú di me felice e vago, non già piú degno. Eh! perché, crudo fato, misero un re e un servo far beato?
27
Io mi credea che 'l valor, ch'è immortale e non ha men che 'l sol lume né rai, a la vaga beltà caduca e frale si dovesse proponer sempre mai e altier men giva di credenza tale, che s'è valore in me tu, Albracca, il sai, che te salvai d'Agrican fero e crudo, del letto uscendo sol, ferito e nudo.
28
E benché lodar sé non sia permesso, il dirò pur: dovea beato farme Angelica per l'atto al mondo espresso e per mille altri ch'io le ‹ho› mostro in arme; ma, non che trapassar, non può gir presso il valor mio a la beltà, che parme qui sí vaga veder (se questa è vera), di cui gioisce la mia donna fera.
29
E non s'acorge che i bei soli ardenti di chi tanto ama e l'ostro, il qual colora il puro latte, e i crin d'oro lucenti e del bel viso e de la fronte ancora l'aria e 'l sereno et i soavi accenti che tra perle e rubini escono fora son quasi un vago e delicato fiore che con quel dí che nasce con quel more -.
30
Ciò detto, afflitto, mesto e lagrimoso, dal messo, ch'ode la sua pena grave, spia se 'l garzon piú ch'altro aventuroso è tal qual la pittura mostra gli have; et egli a lui: - Il giovan grazioso che tien del cor d'Angelica la chiave è senza par, né può la man de l'arte tanta divinità ritrare in carte.
31
Come Angelica egli è tener d'etade, lascivi ha gli atti, ha dolce il guardo amato e, pien di grazie, è colmo d'onestade, vezzoso ne l'andar, ne lo star grato, parla soave, ha in fronte maestade, Cupido par, anzi un angel beato, ha d'or fino i capei, di rose il viso et una aria che ride senza riso.
32
Medor suo nome dolcemente suona, che tosto fia di real manto adorno, tosto risplenderà de la corona del gran Catai e già s'appressa il giorno. Ma dove che io lasciai l'alta persona d'Angelica soave in bel soggiorno non posso dir, che mi impose al partire che dove fosse io non ardissi dire -.
33
Chi vide uom mai vago d'intender cosa, che teme di saperla e attento ascolta ciò che udir non vorebbe, onde l'ascosa picciola pena sua diventa molta, vede il buon Sacripante, che non osa piú il messo dimandar, con voce sciolta, del suo cordoglio e tacendo s'accora, che men certezza averne il meglio fora.
34
Pur sospirando alfin disse: - Riprendi il bel ritratto e al mondo lo divolga e tanto in ogni parte i passi stendi che ciascuno in ver' lui gli occhi rivolga. S'ad Angelica poi te stesso rendi le di' (né ciò di mente te si tolga) che Sacripante è de la vita privo, che morto son bench'io rassembri vivo -.
35
Bascia il messaggio l'effigie divina mentre il re gliela porge e con gran cura la ripiega e ripone e poscia inchina al cavaliere e in Francia andar procura per ubbidir la singular reina. Or l'amante, rimaso in pena dura, dice non senza lagrime in suon pio: - Chi mi consiglierà? Che far debbo io?
36
Io doverei tutto coperto d'arme, non che al Catai (poco lontana parte), ma in questo et in quel clima translatarme, u' non mai il caldo, ove il gel mai non parte, e 'l mio aversario indi dal cor levarme che di lei gode sí che io non vi ho parte, mercé del ciel che a dar non si fu volto il mio animo a lui e a me il suo volto.
37
Adunque il ciel, non la mia donna bella, del terren paradiso unico sole, ha colpa del mio male, e forse ch'ella de mia speme tradita ora si dole, perché mia sorte e sua perversa stella ch'ella odi il gran valor consente e vole et ami in terra beltà senza essempio. Ma che non puote il ciel invido et empio? -
38
Spezzò un tal lamento un forte grido, con note a l'aria dolorose e sole; ond'ei, rivolto al suon ch'empie ogni lido, vede uno a piè, mentre piú coce il sole, che sen viene in ver lui e Amor infido chiama a gran voce e sol d'Amor si dole. Gli è Ferraú, il qual si scorge inante quasi uom che spira il miser Sacripante.
39
Raffigurollo in farseli vicino e nel veder come in su l'erba giace disse ridendo: - O nobil saracino, voi riposate a l'ombra e a l'aura in pace, et un vil servo (ahi, nostro reo destino! ahi, discortese Amor, crudo e fallace!) gioisce in seno a l'empia donna nostra e sé felice in ogni parte mostra.
40
Colei che ne fa il petto un mongibello hassi per bel suo paradiso eletto un servo, che solea di Dardinello e spogliar e vestir la mensa e il letto. Or mercé bella, or guiderdone bello ch'ottien chi l'ama! - E mentre ha cosí detto si morde il dito e disdegnato stride e nell'ira e nel duol piangendo ride.
41
Ciò udendo il re, benché nel duol si stempre, disse: - Nostra empia e sua benigna sorte ardere et agghiacciar ne farà sempre, né pace avrem giamai se non per morte -. Ferraú, che con salde e saggie tempre non regge sé, fece le luci torte, dicendo: - In me non ha ragione alcuna né cielo, né pianeta, né fortuna.
42
Puote il fato di voi fors'esser donno, di me non già, ch'or al Catai men vado perché dorma Medor l'eterno sonno, de la malvagia Angelica mal grado; e se in altrui le inique stelle ponno, lor forza in un mio par puote di rado e né uomo né dio cosa può farme che pentir nol facessi con queste arme -.
43
E credendo del tutto essere armato si vede a piè sin de la spada inerme; et alquanto in se stesso ritornato, tenea le luci al cielo attente e ferme, perché strano furor l'ha trapportato per dritte strade e per vie torte ed erme; l'intender di Medor l'istoria vera del suo sí lungo error la cagion era.
44
Quando egli udí l'altrui ineffabil gioco mosse a piedi senz'arme, in furor volto, qual pastor che la greggia lascia e il loco dove giacea a guisa d'uomo stolto, udito il tuon poi ch'egli ha visto il foco del folgor che li cade appresso molto, poi, dal timor riscosso e da l'affanno, di se stesso s'avede e del suo danno.
45
In presenza del sir di Circassia se riconobbe l'uom di Spagna ardito; a cui disse con somma cortesia il re del latte di Palla nodrito: - Signor, colma di duol la doglia mia l'intender io del caso ch'è seguito; or ora han visto cosa gli occhi miei che per piú non veder non gli vorrei.
46
Visto ho l'effigie di colui che nacque in sí secondo favor de i pianeti che possede colei che sol ne piacque perché non abbiam mai, non dico lieti, ma duo dí senza noia -. E qui si tacque con sospiri cocenti et inquieti. Avrebbe oltra parlato ma tacea, ch'il duol gli veta ciò che dir volea.
47
In questo Ferraú con voce insana il filo a la sua lingua a un tratto spezza gridando: - Adunque una lascivia umana, di leggiadria composta e di vaghezza, che tosto sparirà qual ombra vana, l'ingrata donna, me spregiando, apprezza? Ahi, ria putta sfacciata, adunque tu osi far tanta ingiuria a Ferraú? -
48
Poi tutto assalse col suo parlar empio il vago de le donne amato stuolo e fe' del merto lor sí vile scempio ch'Amor ne pianse per ira e per duolo. E piangendo dicea: - Di doglia m'empio con gran ragion perché, il collegio solo non sendo de le donne, non potrei or gli uomini domare, ora gli dei.
49
Lor mercede in su gli omeri ho queste ali, la benda a gli occhi e in man questo arco franco; mercé loro ho i piombati e gli aurei strali e la faretra che mi pende al fianco; del numer son de i sommi dei immortali pur per mercede loro et ispero anco, come per lor mercede io vivo e regno, mercé lor farmi ancor del tempio degno -.
50
Mentre Amor duolsi, il re al guerrier crudo: - È indegno - dice -, ch'un par vostro vada senza caval, senz'elmo e senza scudo, né al fianco avendo pur cinta la spada; ma è ben degno ch'io, rimaso ignudo d'ogni speranza, in questa alma contrada de l'arme e del destrier privo rimanga e a voi gli sacri e poi mia sorte pianga.
51
Il cavallo e la spada e l'arme a voi consacro, a voi de gli alti onor figliuolo, che far non ne potrei dono infra noi ad uom piú degno, a cavalier piú solo. Prendetel, ch'io de l'ordin de gli eroi piú non mi appello; anzi con grave duolo terminar vo' questo mio viver fosco in aspro, solitario e orribil bosco -.
52
Ciò detto l'arme spogliasi e ne veste Ferraú, che del don grazie gli rende; gli allaccia e cinge (pur con luci meste) l'elmo e la spada, onde a cavallo ascende l'ispano amante, ch'ora sol di queste cortesie nuove alta letizia prende e fa nel dipartir dal gran circasso con gli sproni al caval veloce il passo.
53
Con quel furor che l'acqua, l'erba e l'ombra lascia cervo assetato, ingordo e stanco alor che nulla tema il preme o ingombra et il ferro e 'l velen gli è giunto al fianco, con quel furor Ferraú move e sgombra il terren sí sopra il cavallo franco che l'aria fende assai con minor fretta alata, leve e pungente saetta.
54
Il furore, il cavallo et il desio veloce il porta in ogni alpestro calle; il gran fiume trappassa e il picciol rio, quel piano, questo monte e quella valle; ma Virtú, che da sé 'l vede in oblio, perché le par che 'l sommo uom troppo falle, ne la mente un pensier nuovo li cria, il qual l'arresta in mezo de la via.
55
E li dice: " Esser può che un cavaliero come il sol chiaro adopri spada e scudo contra una donna e un giovanetto altero e seco mostri uno animo sí crudo? O nato de Lanfusa, ascolta il vero: tua somma gloria fia se tutto ignudo vinci la fera donna e spegni quello a danno altrui sí aventuroso e bello.
56
Caso e fortuna sol per farti onore ti fer dianzi obliar l'arme e 'l cavallo, perché de gli occhi tuoi basta il terrore a domar loro, e tutto il mondo sallo; che non sol con i duo t'è disonore: entrar dovresti fin con Marte in ballo sol coperto d'orgoglio e d'arme privo, perché tu sei fatato, s'egli è divo.
57
Ma quando fia che debbi andar armato, dirà ciascun, là onde affretti il passo, che furto sien, perché di gemme ornato tengano il nome del gran re circasso. E se tu giuri che il guerrier pregiato sacre a te l'aggia e che, di gioia casso, sia fatto cittadin d'un bosco folto, questo è un ver ch'ha di menzogna il volto,
58
perché un tal re vie piú l'arme che 'l regno sempre pregiò; e che si creda poi l'alta desperazion del signor degno, che difficil sarà giudicar puoi. Or non far atto del tuo grado indegno, e s'armato a la impresa andar pur vuoi io non tel veto, ma tuo onor ben parme che vi porti le tue, non l'altrui arme ".
59
Dal magnanimo e nobile pensiero fedelmente ammonito e dal suo onore, non replicando altra parola al vero, sua ritrosa ira e suo natio furore di render si risolve arme e destriero d'i circassi a l'altissimo signore. Ma lascio or lui, che mi convien seguire Sacripante, che muor senza morire.
60
Ritorno a lui, che ciò che udí pur ora l'ha cosí al vivo e trafitto et offeso ch'uom saggio par ch'esce del senno fora, né può del duol piú sopportar il peso e lo stare e l'andar tanto l'accora che in sé lo fa dubbiar tutto sospeso, per ch'un pensier, che coi suoi pensier giostra, l'insania del suo error chiaro li mostra.
61
Dice il pensiero a la sua mente: " Quanto, quanto hai, non vi pensando, error commesso! Tu eleggi consumar in doglia e in pianto in solitario orror, miser, te stesso, però ch'il caso temerario tanto non fosse un dí ch'incontrar lunge o presso ti facesse Medoro e darli morte, poi armi un che 'l conduca a simil sorte.
62
S'Angelica tu hai sculta ne l'alma sí come dici e dai colpa a le stelle d'aver ella ad altrui dato la palma di sue bellezze fatalmente belle, perché a danno poi de la donna alma ponesti l'arme in quelle mani, in quelle empie et invitte mani? Or pensar dèi che chi Medoro uccide uccide lei.
63
Ma questo è nulla. Andando ora al Catai Ferraú, che fra i primi il vanto dassi, che l'arme tue per viltà date gli hai dirà ciascun che a mendar altri stassi; e forse ancor maggior biasmo n'avrai, che chi nel vede adorno a creder hassi ch'ei t'aggia vinto e le porti per gloria come vero trofeo de la vittoria ".
64
Queto il pensiero, ecco una donna afflitta, vedova, sola, in panni oscuri avinta, sí dolente, sí mesta e sí trafitta, d'affanni carca sí, sí di duol cinta, che tanti sospir crea, tanti ne gitta, ch'avria per la pietade e mossa e vinta qual sia piú indurata e fera voglia; e piú si duol, piú del dolor s'invoglia.
65
La gran beltà, di che gí dianzi altera, in lei non mostra piú di beltà segno; nessuna fede fa di quel ch'ella era, sí 'l duol le ha spento il natural disegno. Statua in cui Fidia pose l'arte intera, l'amor, lo studio e 'l celebrato ingegno, guasta dal lungo andar de gli anni sembra, che d'uomo non ha piú forma né membra.
66
De i duo, ciascuno misero e infelice, parlarem poi, perch'or chiamato sono de la reina del Catai, beatrice sol di Medoro, a cui altero dono ella fe' di se stessa, onde il felice seco stassi in Albracca e 'l dolce suono de la celeste sua favella ‹'l› molce, quando lieto lo move e quando il folce.
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Poi che Medor con doglia immensa scorse il suo signor quasi bel fior che langue del vomero mercé, poscia ch'ei porse umana aita al real corpo essangue, poi ch'egli del fin suo si stette in forse e dipinse il terren col giovin sangue, poi che gli diè la donna, a lui sol pia, e la vita e se stessa in cortesia,
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si condusse in Albracca egli e colei, che in lui la luce ha sempre fissa e intenta (e, se non che non lice, io sembrarei Angelica ad un'anima contenta, che in contemplar lo dio de gli altri dei de l'eterna vivanda s'alimenta). Mentr'essa il mira le nodrisce il core soave face di gentile amore.
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Dopo lungo, gio‹io›so e consolato dolce riposo, trasse per diletto un dí la donna il caro sposo amato dove tutto il valor del mondo eletto già si mostrò con sua gran gloria armato. Pria per la terra il mena ed hagli detto: - Qui fu il tal fatto - e giunta a quella parte dove Agricane aspre memorie ha sparte,
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dice (e sospira): - Qui fe' guerra dura Agrican sol contra d'Albracca tutta; questa poca di piazza è sepoltura di gente molta da lui sol distrutta; qui facea la sua forza oltra misura, non lasciando di sangue fronte asciutta, cose d'eterna e singular memoria, se intoppo non avea sua tanta gloria.
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Mentre la palma in fier sembiante crudo stringer credea, qui apparve Sacripante, tratto dal grido, sol, ferito e nudo, del vile stuol che li fuggia dinante, e svelto a l'altrui braccio un forte scudo, al feroce uom che facea prove tante qui s'interpose e qui adrieto 'l rivolse, qui la palma di man gli scosse e tolse -.
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Indi partiti e giunti a quella porta, al valor d'Agrican già uscio e varco: - Qui fu, - disse ella, - anco gran gente morta da quel crudel, non mai di sangue parco; qui entraro ed usciro in schiera accorta, ciascun di fé, d'amore e d'arme carco, dieci tuoni, anzi folgori di guerra, che 'l ciel facean tremar, non che la terra.
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Il magno padre mio, re Galafrone, piú di senno e d'onor che d'anni pieno, Brandimarte, il circasso e Chiarione, Antifor, Adrian (che aveano in seno l'imagin mia) ed Oberto e Grifone, Aquilante e Torindo e quel che il freno pone a i feroci e siede a gli altri in cima: parlo d'Orlando, che dovea dir prima -.
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Poi, trapassati al campo, Medor mira i luoghi ove attendar schiere cotante; con gli occhi or torna in dietro, ora gli gira a le reliquie che si scorge inante; l'ossa morte riguarda e ne sospira; parte dà orecchie a le parole sante di quella ch'è d'ogni suo ben radice, che 'l sentiero gli addita e cosí dice:
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- Vedete quelle pietre e quelle spine, sanguigne ancora in questo e in quel camino? Esse squarciaro e rupper le meschine membra del miserabil Truffaldino, ch'ebbe con brutto scorno orribil fine dal gran Ranaldo, di Marte vicino, con grave ira di quei ch'aveano il pondo di salvare il vil re da tutto il mondo.
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Vedete quindi ove son l'orme impresse di duo cavalli e dove sparse in terra son tante maglie et arme aperte e fesse? Fu tra il conte e 'l cugino orribil guerra: gelosia ed amor con ire espresse comosse Orlando sí ch'ivi sotterra Ranaldo estinto il suo furor ponea, se la mia gran pietà nol soccorrea -.
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Poi li mostra u' del conte l'alta forza trovò Marfisa, qual trova onda scoglio; poscia di lei, che con la spada amorza tutte le fiamme de l'umano orgoglio, narrò il valor, con cui piú eroi sforza, ch'a i suoi dí non ne vide il Campidoglio. Medor, compreso il tutto, umíl s'affisse e con suon dolce a la sua sposa disse:
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- Con le sue gloriose et invitte arme e Macedonia e Cartagine e Roma che state sieno in questo campo parme per impor l'una a l'altra servil soma -. Rispose ella: - Col ver posso essaltarme, non per ornar d'eterno allor la chioma: l'opre si fer', ma perché ogniun desia sol trionfar de la bellezza mia.
79
Non vinse me l'empio Agrican gagliardo, né Marfisa, né alcuno armato stuolo, e Medor col soave e dolce sguardo mi vinse a un tratto, e disarmato e solo; non del mondo il coltel, d'Amore il dardo a l'alterezza mia spennato ha il volo, né mai quanto valor splende fra noi mosse il mio cor, ma lo piegaste voi.
80
Non le palme, i trionfi et i trofei, né le corone de l'invitto conte, non di Ranaldo, onor de i semidei, l'eterne e celebrate opere conte, non la gloria de gli altri servi miei mi scaldar mai con le lor virtú pronte, ma voi tutta mi ardete, e non men pento, sí è il cor del dolce suo foco contento -.
81
Medor, che con beltà senno anco avea, di parole appagar li pare indegno il magnanimo cor de la sua dea, che in don li diè se stessa e 'l suo bel regno; onde si tace e tacendo piangea e con le calde lagrime fa segno ch'altamente ringrazia la donna alma con la lingua de l'animo e de l'alma.
82
Have acceso il bel viso di quel foco ch'infiammar rosa dolcemente sole quando s'apre vezzosa a poco a poco tra il fin de l'alba e il cominciar del sole; ella fiso lo mira et hanne gioco, che ben s'accorge quel ch'esprimer vole col suo silenzio lagrimoso, e in tanto con le sue man gli asciuga il dolce pianto.
83
L'umor cortese e affettuoso asciutto, inviarsi ove il misero Agricane combattendo col conte in fero lutto sentí del valor suo le forze vane; intero ancor, ma disarmato tutto al fonte di Merlin sol si rimane: urna non chiude l'orrido suo velo, che, invece al marmo, lo ricuopre il cielo.
84
Senza indugio il boschetto indi vicino in atto trappassar dolce e lascivo e giunti al fonte del mago Merlino scorse il gran re simíle ad un uom vivo che par morto dormendo; et il meschino si giace in terra d'ogni pompa privo. Com'ella il vide, cangiato il sembiante, si ristrinse a Medor tutta tremante.
85
Non di rosa pallor né di viola, che sole o pioggia affliga in loro stelo, non pallidezza di leggiadra e sola vergine pastorella che il bel velo o tronco o sterpe fuggendo le invola, veduto il serpe, quando avampa il cielo, non languido color di fior reciso rassembra quel de l'angelico viso;
86
ma, preso qualità dal corpo estinto, il gentil volto candido e rosato apparve di mortal color dipinto, sí de le guancie il sangue è dileguato; ond'egli, ch'è da un tenero amor vinto per la pietà del viso suo cangiato, da lo spettacol fer seco si tolse e in piú gioconda parte i passi volse.
87
Indi partiro e giunser tosto in parte ch'il timore e l'andar gli sgombra e affrena. Mai di natura amor né studio d'arte la piú nobil non fe' né la piú amena. Le gelide acque che la fonte ha sparte creano un rio che se medesmo mena nel suo bel grembo e chiaro si ripone in bel gorgo ch'onora ogni stagione.
88
Non manca al luogo, che a lor tanto piacque per l'eccellenzie sue nuove e feconde, arbori, frondi, fiori, ombre, aure et acque; ma fior, acque, aure, ombre, arbori e fronde d'ogni altro sito al sito ch'ivi nacque, nel qual continuo april suoi pregi infonde, par che rendin tributo e sembra il nido di colei ch'anco onora e Cipri e Gnido.
89
L'acqua pura, il bel verde e il fresco vento vagheggion fissi i singulari amanti; la bella donna fa con l'andar lento l'erbe fiorir presse da i piedi santi; meno allegro si mostra e men contento l'anno di maggio e de' suoi vari manti che non fa il luogo de la copia bella a cui s'inchina la stagion novella.
90
Di splendido contesto e terso argento ornate avean le pargolette membra; propio d'angeli è lor bel portamento e del ciel cosa l'uno e l'altro sembra; gli comparte il dolce oro il velo e il vento, e chi veder giamai lieti rimembra su i fior Cupido o su per l'erba dea dica ciascuno " è tal ", non " tal parea ".
91
Or la sorte in un tempo ad ambo mostra, perché posin le membra pellegrine, quasi un bel‹l'›antro ne l'ombrosa chiostra che senz'arte han composte alcune spine, onde bianca e vermiglia altera mostra fan le rose vezzose mattu‹t›ine de le quali il pratel s'adorna e infiora, poi che seco ha scherzato alquanto l'òra.
92
Ne l'antro, il cui secreto unqua non cede del sole a i raggi, tra l'erbette e ' fiori corcarsi soli; intanto l'aura fiede ne i lor bei volti e spira grati odori. - Medor, ch'è nel cor mio, sasselo e vede quanti ha da me sera e matina onori - l'alma Angelica dice -, et ei sa come riverisco et adoro il suo bel nome;
93
che non pur i desir de i casti petti ponno scaldar vostri sereni lumi, ma infiammerieno entro gli erbosi letti sotto il ciel freddo i piú gelati fiumi, perché d'Amor son chiari nidi eletti; e se di voi scorgano i bei costumi queste piante e quel rivo, io tengo certo che gli arderete d'uno incendio aperto -.
94
Ed ei ne le parole ch'ella porse gli spirti inebra e il cor fido consola; poscia con la soave bocca corse onde esce il suon de la favella sola; e perché in lei celeste ambrosia scorse in mezo a i labbri l'ultima parola li bevve con un bascio ed umil disse: - Vita et anima -. E qui tacque e s'affisse.
95
Quando Angelica il bascio dolce a pieno gustò con l'alma, per la rosea bocca stillando giú nel cor di desir pieno, da un vital morir sentissi tocca, tal che fore del tenero e bel seno la dolcezza d'amor calda trabocca. Ella parla e in lui tien le luci sole, ch'han prestato piú volte il lume al sole.
96
Quegli occhi affige in lui, quegli occhi dove il suo trono maggior Cupido tene, quegli occhi in cui, tosto che 'l dí si move per dar luogo a la notte, il sol sen viene, quegli occhi a i quali fino al ciel di Giove toglie il sereno ch'altero il mantiene, quegli occhi ove han le Grazie alto soggiorno, da cui chiara letizia prende il giorno.
97
Poscia ch'ebber di sguardi e basci grati gli occhi e i labbri notriti a l'ombre sole e gli orecchi attentissimi cibati de la dolce armonia de le parole, de l'Aure i lievi e graziosi Fiati, da le rose, da i fior, da le viole e da le frondi dipartirsi queti e gli angelici crin disciolser lieti.
98
Disciolto l'ondeggiante oro sottile e il vel che lo copria seco traendo, questa Aura de un bel crin forma un monile, il candido di lei collo cingendo; quella dentro e di fuor del sen gentile un altro aureo crin fa gir serpendo: chi parte i bei capegli e chi gli preme, altra gli sparge, altra gli accoglie insieme.
99
I dolci Sonni fra le frondi ascosi, mentre scherzan co i crin l'Aure lascive, del dolce vaneggiare invidiosi le assalir le due stelle altere e dive; e per farsi piú chiari e graziosi si unir con l'Aure, non pur d'essi schive, ma sí amiche ch'ov'è l'Aura è il Sonno e insieme consolar l'anime ponno.
100
Tosto ch'i Sonni i begli occhi assaliro, la donna ora gli mostra aperti or chiusi: non han valor ch'allumi con un giro l'aere d'intorno, qual di far son usi. A tal sembianza il sol spesso rimíro, che i suoi lucenti rai tutti confusi lieto or ne porge e mesto ora ne cela se nuvoletto alcun lo adombra o vela.
101
Poi nel serrar de i lumi, onde il sereno perdette il dí, visibilmente Amore basciolla, e il foco suo mísole in seno, dileguò i Sonni e nel profondo core discese il bascio di faville pieno. Sí il disio le raccese et il fervore che con strania lascivia pose al collo le belle braccia al suo terreno Apollo.
102
Poscia, congiunto l'uno e l'altro petto, si uniro insieme sí fervidamente che d'ambo i cori con equale affetto queti basciarsi incomprensibilmente e i vaghi spirti, corsi per diletto su le labbra, si bevver dolcemente; poi lenti a un tratto cadder sospirando, l'un l'altro in bocca l'anima spirando.
103
In questo il Sonno, lusinghier soave, tra l'ombra e il verde senza impaccio apparve e col favor de l'Aurette ch'have ne i lor begli occhi entrò come a lui parve. Ogni cura che punto il core aggrave del Sonno a l'apparir da quelli sparve, tal che, s'Amor non gli destava alora, e l'uno e l'altro dormirebbe ancora.
SECONDO CANTO
1
Non si curi del ciel chi in terra vive felice amando e del suo amor contento né lassú brami fra le cose dive sentir la gioia ove ogni spirto è intento, perch'al sommo diletto par che arrive solo il gioco amoroso, e in quel momento che de la donna sua si bascia il viso s'ha il medesimo ben ch'è in paradiso.
2
O beati color ch'hanno duo cori in un sol core e due alme in un'alma, due vite in una vita, e i loro ardori quetano in pace graziosa et alma; beatissimi quei ch'hanno i fervori con desio pari scarchi d'ogni salma, né invidia o gelosia né avara sorte gli nega alcun piacer sino a la morte.
3
Fa di ciò fede Angelica e Medoro, ne i quali Amor le sue dolcezze affina, ch'una beatitudine han fra loro, mercé de la sua stella pellegrina, ch'esser gli par sú ne l'eterno coro e aver la gloria a Dio vie piú vicina d'alcun beato, anzi gli par che il cielo altro non sia che il lor ardente zelo.
4
Il queto Sonno, di posar contento, i lor sacri occhi abandonar non vole; l'ombra del verde, il respirar del vento, de l'acque il suon, l'odor de le viole e de gli augelli il semplice concento favor gli fan con tante grazie sole, che, s'Amor non rompea sue dolci tempre, ivi gioiva, ivi albergava sempre.
5
Ruppesi il sonno umíl, placido e chiaro ne l'ora che 'l sol perde i raggi caldi, onde colmi di gioia si levaro ambo de i freschi e teneri smeraldi. Ne la partenza a pianger cominciaro quei che cantavan sopra i rami saldi, i fior pallidi fersi e sparve l'ombra et un vedovo orrore il sito ingombra.
6
Mentre i sentier fioriti et egli et ella premon soavi, spiega il denso velo l'umida notte, onde la copia bella prima con gli occhi fe' sereno il cielo, poi col guardo gli accese ogni sua stella, e godendo del dolce estivo gelo si rendono in Albracca, ove un corriero trovar, qual avea corso ogni emispero.
7
Da i freddi lidi a le cocenti arene del Tanai e di Libia egli avea corso; varcato ha il mar qual crea orche e sirene e calcato d'Atlante il petto e il dorso; tutte le selve ha cerco, d'orror piene, sin dove il sol raffrena e prende il corso, per trovar lei, e la saluta al fine con volto basso e con ginocchia inchine.
8
Il servo umíl l'altissima cagione ch'errar fatto l'avea di clima in clima con parlar breve a da suo par l'espone, ma lagrime e sospir traendo in prima. Fattole udir ch'estinto è Galafrone, ella, che seco il ver tacita estima, per fare al regno suo presto ritorno entrò in camin ne lo spuntar del giorno.
9
Il dí ch'uscí d'Albracca ella e il suo sposo entrò in Parigi con l'essempio altiero il messo che lasciò nel luogo ombroso l'alto circasso colmo di duol fiero. Era il giorno felice e glorioso che l'onorato singular Ruggiero sol trionfò con sue virtuti conte del temerario ardir di Rodomonte;
10
onde con real pompa fur ridotte nel tempio ivi maggior, sospese in alto, l'arme smagliate e fieramente rotte di quel che volle a Dio mover assalto (vestille il re d'Algier dopo Nembrotte, e d'antiqua bontà col ver l'essalto) et in un titol d'or sopra si mise: " De Rodomonte fur. Ruggier l'uccise ".
11
Perché piacque al buon Carlo, in un momento fu de l'arme arricchito il tempio tosto e 'l morto, che de i vivi era spavento, dove morío suso un pilastro è posto, a guisa che si suol poscia che il vento lascia dal mar con impeto discosto, di squame armato, il monstruoso pesce, che piú entrar non può ne l'acqua ond'esce.
12
Tosto che 'l messo reverente corse ne le case reali, in seggio altero tra i dodeci robusti Carlo scorse, che in terra il padre par d'ogni emispero. Stansi ne la sua fronte, u' gli occhi porse, Arme, Religion, la Fede e il Vero, e tacendo e parlando mostra segni ch'obietto è sol de i trionfi e de i regni.
13
Vide Ruggier, vide i famosi eroi de la gran corte al suo valor sovrano dar corona di lode, e vide poi, piena di desioso affetto umano, Bradamante gentil co i modi suoi basciarli umíl la vincitrice mano, avendo ancora, benché fosse ardita, dal suo bel volto ogni beltà smarrita,
14
che, se ben ella come il suo signore non combatté con Rodomonte fiero, tutti quei crudi colpi ebbe nel core ch'avuti per lo dosso avea Ruggiero: mentr'ei guerra mortal fece di fore, ella contese dentro col pensiero e l'avea quasi posta a l'ore estreme de la sua palma una dubbiosa speme.
15
Mentre a Ruggier con tenera accoglienza il famoso drappel soggiorna inante, mentre gioisce de la sua presenza Marfisa, ch'ha i trionfi nel sembiante, ecco il corrier con somma riverenza curvar, chinar, piegar fra genti tante le spalle, il capo, le ginocchia e dire: - O magnanimo, sacro, invitto sire,
16
messo de l'alma Angelica son io, che imponermi degnò, da lei partendo, ch'al mondo fessi noto che d'un dio s'è fatta sposa, del suo amor ardendo; e perché il mondo a te sol paga il fio, gli incensi e i voti al tuo nome offerendo, al mondo il dico, s'a te 'l dico -. E intanto scoperse di Medor l'essempio santo.
17
La schiera, il cui mormorio ivi risona quasi quello del ciel quando cangiare sua faccia suol, che poi balena e tuona, quetò il saggio uom, come racqueta il mare estiva calma che nulla aura sprona, tal che dov'è ciascun nessuno pare, che, dal nuovo miracol mossi e tocchi, senza lingue a l'imago han fissi gli occhi.
18
Lo stuol famoso, di mirar contento la gran beltà del colorato viso, sembra de buoni un bel numero intento a porger prieghi al re del paradiso, e par l'aggia Medusa in un momento converso in marmo, sí contempla fiso la non piú vista incredibil beltate, ch'ha di sé le vaghe alme innamorate.
19
Alda, che in altro foco unqua non arse di quel ch'accese in lei pudico amore, sente da quella imagine disfarse, ch'or l'imprime il desio nel casto core; in due rose vermiglie trasformarse le guancie a Bradamante mostrò fore che la nuova bellezza tocco le have l'alma de cui Ruggier serba la chiave.
20
Mentre l'effigie a sé conversi avea gli occhi e 'l cor di ciascun senza far motto, con l'anima un sospir Marfisa crea che l'aere e 'l silenzio in uno ha rotto, ond'ogniun parla. Carlo sorridea (qual uom per lunga esperienzia dotto) de l'incauto sospir nato et estinto mercé del vivo e bel giovin depinto.
21
Ma varco omai a quella donna, a quella che ne la passion mesta e tremante comparse oscura, quasi vile ancella, nel conspetto real di Sacripante; la qual dopo i saluti gli favella: - O cavalier, per quel ch'io veggio, errante e pien de guai e colmo anco di doglia, dolore è il mio, sia il tuo che duol si voglia.
22
Strano signor, se di contrarie cose doler si debbe e se ne vive alcuna che cagion ne abbia per sorti noiose, quella sono io, che cosí vol fortuna, e certo, quando in terra il ciel mi pose (che foss'io di non esservi digiuna!), consentí ch'ogni sua empia influenza sopra me trista fesse esperienza.
23
S'udir non vi dispiace, alto signore, i miei guai conterovvi a parte a parte -. - Anzi, d'udirlo ho gran desio nel core - disse il terror de la scola di Marte -, che tanta passion sento d'amore, che 'l cor fra tanto foco or mi comparte, ch'io non scemo il mio male, u' sono e fui, se non quando ch'io odo il mal d'altrui -.
24
Ella comincia sospirando: - Io nacqui quasi beata e di tal grazia ch'io mai ad alcun servo d'Amor non spiacqui et era vita a chi creommi e dio; ma il nido, in cui con pompa altera giacqui, non oso dire, e n'ho sommo desio; dirò ben che mi fece la mia stella di re figliuola e mogliere e sorella.
25
Quel che sposo mi fu era nimico del padre mio, onde col campo venne nel regno suo, acceso d'odio antico, e quel con l'arme corse, arse et ottenne. Tentò piú volte Sua Corona amico farsi il buon vecchio, et ogni via ci tenne, e non mai di piegarlo ebbe rimedio, anzi u' il seggio tenea pose l'assedio.
26
Poi, durando la guerra, Amor piú volte su le mura mi scorse e mi fece anco lodarlo mentre apri' a le schiere folte a questo il petto, a quel la gola e il fianco. Su le porte un dí corse in ire sciolte con un trapunto d'oro abito bianco; senz'elmo il vidi e trappassommi al core sua dolce vista, come piacque ' Amore.
27
Tosto ch'io fui del suo bel viso accesa, cieca mi fece Amor, come far sole desiosa alma, ad amar sempre intesa quel che piú la consuma e piú le dole. Io obliai ogni danno, ogni offesa che ne facea con le sue forze sole, e tanto amava lui quanto che il rio odiava il buono e real padre mio.
28
Era re, era vago e gioven era, era conto, era saggio et era forte, n'altro piacer avea la Fama altera che riportar dentro a le nostre porte de i gesti suoi la lunga istoria vera; tal ch'io, spinta d'amore e da la sorte, di lui m'accesi e non m'avidi alora quanto erra chi per fama s'innamora.
29
Né soffrir possendo io al core in mezzo l'ardente imago del bel volto adorno, un fido ritrovai secreto mezzo e il foco mio li fei scoprire un giorno. Ei, ciò udendo, dubbitosi mezzo che fosse un laccio teso per suo scorno, ond'io men venni a lui pronta e sicura per una ignota via angusta e scura.
30
Sotto il palagio avea una tomba cava, fatta per gran bisogni, et in man mia del sepolto uscio ognior la chiave stava. Lo apersi, ohimè!, e per l'oscura via solinga andai -. In questo il pianto lava suo dolce viso e a pena il retenia, e segue: - Io stessa andai nel cieco loco, dove lume mi feci col mio fuoco.
31
Amor, che meco per compagno e duce visibilmente per la tomba venne, inanzi al mio dio empio mi conduce. Ei la lingua mi sciolse e 'l piè ritenne: ciò ch'io fei, ciò ch'io dissi, Amor mi induce a fare e dire, e sempre le sue penne mi scosse intorno al cor, perché la fiamma de l'ardor mio non si scemasse dramma.
32
Come a lui giunsi e ch'ei s'avide chiaro ch'io del suo avversario era la figlia, piú finse amarmi e piú avermi caro che l'alma in seno e il lume ne le ciglia. Quel ch'Amor, mentre ardea con duolo amaro, mi detta, mi amonisce e me consiglia, quel formai, quel ritenni e quello dissi con un pianto ch'avria rotto gli abissi.
33
Non sembrai già fanciulla incauta e vile, anzi serva d'Amore esperta e ardita; trovai ogni parola che gentile core a pietà de le sue pene invita, tal ch'ei, dentro crudel, di fore umíle, che tanto mor quanto il mio padre ha vita, in guisa d'uom ch'ingannar altri vole, disnodò la sua lingua in tai parole:
34
" Donna, io vi giuro per quel nuovo ardore, del quale accesa omai l'alma m'avete, ch'odio né sdegno il mio real valore non ha spinto a quel fin che vi credete, ma un sol desio di sempiterno onore, una di gloria inestinguibil sete è la cagion che fero oggi mi mostra contra l'altezza de la sede vostra.
35
Ma se a me date tanto modo ch'io prenda la terra dove il campo ho intorno, a ciò ch'io adempisca il gran desio, che pria m'ucciderei che fargli scorno, il padre vostro fia suocero mio, mia sposa voi, con cui farò ritorno ne l'antico mio chiaro e nobil regno, che del vostro sarà sempre sostegno ".
36
Come io li udi' " voi la mia sposa " dire, tanta letizia il mio cor vago strinse ch'io tornai molle a ciascun suo desire et a dargli la terra Amor mi spinse. Ei mi giurò sol de l'onor gioire del vinto padre, e 'l dito poi mi cinse de l'anel maritale, e cosí prese l'albergo dov'io nacqui, e quello accese.
37
Il mio nido arse e uccisemi il fratello su gli occhi al padre, e la madre infelice dinanzi al figlio, e passò d'un coltello in grembo a me, semplice traditrice, chi l'esser diemmi; e dopo il caso fello seco mi mena, e non mel contradice vederlo io molle del mio sangue giusto, che tutto pote Amor spietato e ingiusto.
38
Or sú, io vado col marito invitto, ch'ha il mio regno converso in piú ruine, e, gravida di lui, mio corpo afflitto de i nove mesi è già condutto al fine, già il duol m'assale, et ei, ch'ha nel cor fitto il mio morir, fe' pormi in su le spine, a ciò le spine e il duol ch'ognior mi accora sien cagion ch'io e il parto estinto mora.
39
Io stessa mi spogliai la nobil vesta, che disperato amor mi fe' sicura; scoprendo i membri dissi: " O ingrato, è questa l'alta mercé de la mia fede pura? Parti a reina sí vil morte onesta? Ove fu mai che il padre sepoltura a l'unico figliuol vilmente desse inanzi ch'ei peccasse e ch'ei nascesse? ".
40
A tai parole le spine pungenti l'acute intenerir punte mortali; fersi benigni i piú rabbiosi venti ne l'udir l'innocenzia de i miei mali. Duo servi intanto, anzi fieri serpenti, per saziare i desir suoi e i fatali, me gittar su le spine e gran pietade ebbe alora di me la Crudeltade.
41
Le spine mi dier luogo e caddi in l'erba che sotto a quelle era ben folta e verde; feci un fanciullo che l'effigie serba del padre in viso e nulla non sen perde; lo prende un servo e con vista superba dice: " Il re mio, che teco ira rinverde, vuol ch'io l'uccida, a ciò finisca insieme l'odio suo, la tua vita e sí vil seme ".
42
Cosí disse e nel sangue il ferro immerse, ch'al cor passomme quando in quel si tinse, e le tenere membra a un tratto aperse che pure alora il materno alvo avinse d'intorno a lo spirtel, ch'al ciel s'offerse prima che 'l sol vedesse, e 'l laccio scinse de lo stame vital sul far del nodo, ch'è quel morir che piú che il viver lodo.
43
Fui rivestita, et ecco in aureo vaso il duro laccio, il coltello e 'l veneno, dono crudele et inaudito caso. Meritava io, che l'avea sculto in seno, che per me sí reo fin fosse rimaso? Deh, perché non si turba il ciel sereno mentre io 'l narro co i mesti accenti miei e perché alora il sopportaro i dei?
44
Èmmi detto: " Ecco il ferro, il tosco e 'l laccio; eleggi tu quel fin ch'elegger vuoi: per tre vie trar l'anima d'impaccio, mercé del re, fallace donna, puoi ". L'empia proposta, che restar di ghiaccio ogni alma ardente avria fatto fra noi, nulla mi sbigottí, nulla mi mosse, anzi stimai che in lei mia gioia fosse.
45
Con intrepido core e fronte ardita, con gli occhi fissi a le mie stelle forti, presi il ferro, la corda e il tosco. Uscita fuor d'ogni speme, volsi con tre morti tormi ad un tratto una noiosa vita, et mi fecero i cieli ingiusti torti, non mi lasciando con le mandate armi appendermi, ferirmi e avelenarmi.
46
Io, mendica di speme, il laccio presi per richiuder la via del spirto mio; ruppesi quel tosto ch'a lui m'app[r]esi. Il tosco bevvi con mortal desio, né con la vertú sua mio corpo offesi, che contra quel presi il ripar già io. Strinsi il coltel per trapassarmi il core, ma ratto entrò tra 'l ferro e 'l petto Amore,
47
Amor, che in mezzo al mio desio si misse, non per camparmi, anzi per piú martíre, et alzando io la mano: " O Folle ", disse, " come ti può l'alma e 'l cor soffrire d'offender l'idol tuo, che a luci fisse mira la spada che lo vuol ferire? ". A questo suon restò sospeso il colpo, che lui e Amor del duol ch'or pato incolpo.
48
Io aveva ritratto al naturale di serica opra il mio signor nel petto, in vista dolce, a quella propio eguale ch'ei mi porgea ne l'amoroso affetto, e mentre il ferro discendea mortale di man mi cadde, onde ebbi piú rispetto a la imagine sua di spirto priva ch'ei non ebbe a la mia senza cor viva.
49
Allora quel, che ne le notti inferne nacque, perch'io morissi d'ogni morte trar femmi in mar; ma l'alme dee eterne sacre a Nettunno uscir pietose e accorte da l'ampie, salse et umide caverne, e lor mercé, non bontà de la sorte, mi salvaro; e 'l miracolo piú sdegno crebbe in colui de la mia fede indegno.
50
Ei, per mostrar che 'l mio mal prende a gioco, con rabbioso, ostinato e inuman zelo accender fece in sua presenza un foco, et io a lui: " Sgombra da gli occhi il velo, ch'a tormi l'alma tal martíre è poco, perché farieno a piovere col cielo questi occhi, e con il mar, ch'entro vi sento, la fiamma e il foco avrò consunta e spento ".
51
Ma parlo a l'ombra di teatro o loggia: il fuoco è acceso, e mentre in mezzo a quello era gittata, ecco una orribil pioggia ch'avria spento ancor seco Mongibello, ond'io, ch'ardea d'una piú strana foggia, non arsi, ond'il mio sposo e amante fello, per far il fier desio di me satollo, stender mi fe' l'umíl tenero collo;
52
poi, chiamato un uom reo, com'egli fero, disse: " La testa vil tronca a costei ". Mia morte è in l'aria e giú piomba l'altero colpo crudele, fin de i dolor rei; mi trema ancor pensandoci il pensiero, fa il membrarlo agghiacciar gli spirti miei, che smarriti nel cor sen fuggir via quando al collo sentir la spada ria.
53
Il ciel, che tanto mal soffrir non volse sol perché io sia d'angoscie albergo e nido, dove il ferro non taglia in me rivolse, onde s'udí sonare il comun grido, che da gli animi altrui pietate asciolse, il qual con pregar dolce, umíle e fido dicea, mostrando il cor ne le parole: " Non die' volersi quel che 'l ciel non vole ".
54
Ma nulla vale. Ove abita un leone fe' pormi l'inventor di crudeltade, il qual ebbe di me compassione, forse onorando la mia nobiltade, over che la sua alta condizione con donna afflitta e in giovenetta etade non si degnò di pur guardarmi appena; ma gli fui tolta e data a un'altra pena.
55
Dentro il carcer mortal rinchiusa io fui e viva in crude tenebre sepolta. Le mie lagrime e 'l duol, caro a colui di ch'io ragiono, cibarme ogni volta; quel ch'io soffri' vederlo ora in altrui mai non potrei, e chi mia sorte ascolta e non piagne o sospira in luce tetra è in carne e in ossa una insensibil petra.
56
Stetti in quel nuovo et empio abisso chiusa la terza parte d'una fredda luna, tanto a nudrirmi de le mie pene usa che ne stupia fin la mia rea fortuna. Ogni cor pellegrin di biasmo accusa quel monstro uman che non ha pièta alcuna, anzi al suon de l'oneste alte querele piú rigido tornava e piú crudele.
57
Le preghiere d'altrui cortesi e pie, per cui dovea il cor rintenerire, noiose gli fur sí che notte e die rinovar meco gli facevan l'ire, e per saziarsi de le pene mie molti archi e strali a sé fece venire, poscia al busto d'un albero legarmi et inumanamente saettarmi.
58
Ch'il crederà? Mentre da gli archi uscia questo e quel strale a tormi l'alma intento, de le saette il fier nembo partia per miracol divino il mobil vento, e quanto il ferro piú dritto venia per darmi al cor, di quel ferir contento, tanto piú il pietoso vento in vano fece il colpo da me cader lontano.
59
Al fine elesse una superba torre, alta e profonda, perch'io cada giuso, ond'io mi sento in crude braccia torre e subito portar, mesta, lassuso. Tevere et Arno sí ratto non corre per lo suo letto qua e là diffuso, qual corse il rio ch'ogni mio ciglio sparse quando la mia persona in alto apparse.
60
Già le mie care membra non pians'io, che mi dovean fiaccar le ruine adre: altamente temea lo spirto mio d'incontrar l'ombra del mio caro padre, che certo detto avria con parlar pio ne la presenzia di mia dolce madre: " O cielo, o abisso, che puoi legge darne, costei spogliommi, io le vesti' la carne ".
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Orsú, io fui gittata de la mole, che col ciel contendea d'altezza quasi; corse a veder l'empia ruina il sole e pianse i miei troppo infelici casi; sonaro le mie ultime parole: " Voi, che dopo di me sete rimasi, con chi viene scusatemi, ch'errai d'ogni altra piú, che piú d'ogni altra amai ".
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I panni d'or, gonfi da i venti, fanno al mortal cader mio vivo sostegno, tal che senza disconcio e senza affanno, quasi ch'io fosse di penne, giú vegno. Questo ultimo miracol d'ogni danno mi ristorò, perché il mio sposo degno in tal compassione a un tratto cade che pianse di stupore e de pietade,
63
e con pianti e sospir le braccie porse al collo a me con tenerezza tanta che lo spirito quasi col piè corse fuor de l'uscio del cor, che mi si schianta pensando al caso non piú inteso forse; e fu la non sperata pietà santa per fare in me, dopo gli strazii e i torti, quel che far non potero undici morti.
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Ei, che pur ora al duro core avea piú ghiaccio che non ha di monte falda ove il sol mai a stagion buona o rea penetrando non vien con luce calda, di me pietoso in tante fiamme ardea che con meno Cupido arde e riscalda mille anime gentili e mille cori, e sol pensando in me par che s'accori.
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Le piú superbe nozze e le piú rare fece ordinar con pompa gloriosa ch'uman pensier si possa imaginare e di nuovo mi fe' sua donna e sposa. Venne la notte e quando coricare mel viddi a lato con gioia amorosa dissi, volgendo a lui l'anima e 'l viso: " Io son teco, signore, e in paradiso ".
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Ei con le nude e preziose braccia parte cingendo de le membra mie, chinando umíle la sua nobil faccia le luci affisse mestamente pie ne gli occhi miei, onde l'alma s'agghiaccia quel sol mirando a le mie notti die, che mi parea che non so che di male m'apparecchiasse il suo mirar fatale.
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Pensosa io 'l guardo et ei con pensier mira questo viso e mirando immobil fassi. Chi ha visto un uom quando fuor l'alma spira vede colui ch'a rimirarmi stassi. Io dicea col mio cor: " Forse il martira il mio soffrir, ch'a pièta ha mosso i sassi "; et era ver che 'l suo pensier gli avea spiegato in mente ogni mia pena rea.
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Il pensier gli spiegò ne l'alta mente mia sola fé, che tal non fu né fia; gli addita me che gli do puramente padre, madre e fratel com'ei desia, e pate quel dolor teneramente che soffrisce un mentre ch'a vol s'invia di madre, di fratel, di padre l'alma, grave a la carne piú d'ogni altra salma.
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Vede il foco ch'abrucia archi e teatri, de gli dei e dei re le case e i tempî e n'ha quel duol ch'avria se de' suoi patri vedesse in cener gir gli antiqui essempi. Pensa a la siepe armata di spini atri che dovea lacerarmi in feri scempi, et a quella pensando, ogni sua punta mortalmente ne l'anima gli è giunta.
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Ecco che dice " ohimè! ", e tremando io tremare il veggio e al ciel comporre il ciglio, che vede trappassar dal coltel rio suo propio cuor come suo proprio figlio; ma d'assai vinse il suo dolore il mio, che, mio mal grado, uscí da lui il consiglio ch'uccise con un ferro a un colpo solo la sua succession nel suo figliuolo.
71
Innocente mi vede al laccio appesa e gli par che 'l suo collo il fune prema; vede bermi il veneno e quella offesa sente nel core e sbigottito trema; mira la spada ch'ho ne la man presa per tormi l'alma, ond'avien ch'ei ne gema, perché il ferro, ministro al crudo effetto, si sente fitto nel core e nel petto.
72
Il mar profondo ove gittommi vede e summerger pargli ivi a poco a poco; per se stesso mercé piangendo chiede nel rammentarsi che viva nel foco fe' pormi a torto, perch'egli si crede le propie membra abruciare in quel loco; pargli che 'l colpo nel suo collo cada nel pensar qual nel mio giunse la spada.
73
Guarda il leon famelico che mira me misera con orrido sembiante, e credendo che venga seco in ira pallido fassi, gelido e tremante; pensa ch'io stetti ne la prigion dira senza cibo assai dí con pene tante, e ciò pensando l'assalgon le brame di lunga, ingorda e insopportabil fame.
74
Ei seco pensa a le saette dure che piovevan da gli archi in schiera forte per rompermi le membra, e le paure ch'io ebbi alor di cosí fera morte circondan lui e fa le ciglia oscure, ch'esser giunto li pare a simil sorte; e la torre u' fe' trarmi rimembrando cadde ne le mie braccia sospirando.
75
Ne le mie braccia cadde e ratto al core si ristrinser gli spiriti vitali e diventaro un'anima che fore uscir volendo, aperse ambe due l'ali. Io il sento molle in gelido sudore, freddi ha gli estremi de i membri mortali, e gli fur queste braccia, ahi sorte dura!, gioia, duol, vita, morte e sepoltura.
76
Non fu nulla il veder mio genitore, la pia madre, il buon frate e il figlio caro morir di ferro, e l'incendio e 'l furore che il mio regno abatté, piú tempi chiaro; poco fu ogni spezie di dolore che il mio corpo provò con martír raro: doglia si può chiamar quella partita che mi tien viva e seco ha la mia vita.
77
Io so ben che il suo fin, d'amanti essempio, gran giustizia è d'Amor, ma dovea io patir per lui perché 'l suo cor fece empio natura no, anzi il peccato mio; ma il ciel mi face (per cui di duol m'empio) de l'error piú di lui pagare il fio; e che sia 'l vero, ei gí del mondo fora sola una volta et io vi vado ogn'ora -.
78
Seguitava la donna e dir volea il nome suo e come disperata partí, morto il suo dio, con pena rea mentre istoria sí dura ha racontata, ma le parole in bocca le rompea, facendo a punto ne la selva entrata, un rumor che direste, o cade il mondo, o il centro ha fin sotto il terrestre pondo.
FINIS
EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Pietro Aretino, Poemi cavallereschi", a cura di Danilo Romei, Roma, Salerno Editrice, 1995
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